Non ci resta che salire l’ultimo scalino di questo discorso che, spero, non sia stato troppo noioso o pretenzioso. Abbiamo chiarito parlando di Voltaire e citando Lovecraft che cosa debba contenere a mio modesto avviso un buon racconto dell’orrore, come l’autore debba esporlo e perché – credo – ci piaccia così tanto leggerlo: se volessi dare un’occhiata, ti basterà cliccare su queste ultime due parole in grassetto per andare agli articoli in questione.
Però questo ultimo passo dobbiamo farlo io e te, come lettori. Dobbiamo chiudere il cerchio e andare avanti rispetto ai contenuti che sono stati proposti da tutti i teorici che ho citato, Lovecraft in primis.
Infatti, credo che non si possa prescindere, nel discorso in esame, dal trattare dell’immedesimazione. Perché sì, c’è una componente di immedesimazione fortissima in tutte le storie che leggiamo.
Questo concetto è da tenere distinto da quello, seppure affine, di coinvolgimento: posso essere coinvolto da un’opera per lo stile, per la delineazione della trama, perché parla di cose che io conosco e che mi sono care.
L'immedesimazione
L’immedesimazione consiste, in superficie, nella vera e propria identificazione nel protagonista – o nei protagonisti – di quanto andiamo a leggere: io mi identifico in quel personaggio e mi immedesimo in lui, vivendo assieme a lui tutte le vicende che lo mettono a contatto con l’ignoto. La mia professoressa di matematica del liceo avrebbe invocato la proprietà transativa dell’uguaglianza, io mi limito a citare l’alter ego.
Io, che sono il lettore, sono lì in quell’opera e vivo le vicende che un narratore abile o meno ha inteso mettere davanti al mio cammino. Sto affrontando l’ignoto con abiti di carta.
La componente che deve per forza scaturire come conseguenza logica di quanto appena detto – visto che siamo in tema di analisi matematica – è l’ulteriore concetto della verosimiglianza.
Anche qui mi tocca dividere questo vocabolo così lungo da leggere e bipartirlo in due accezioni.
Si avrà verosimiglianza della storia quando le vicende, eccezion fatta per quell’unico elemento incredibile e spaventoso, prendano spunto dal nostro quotidiano e possano essere suscettibili di essere vissute da qualsiasi lettore – è per questo che molti consigliano di ambientare i propri lavori in realtà che ci sono molto familiari, lasciando perdere, o comunque accantonando, le ambientazioni esotiche. A meno che tu non sia Clark Ashton Smith, chiaro.
“[…] si dovrebbe dare al racconto un’aria di perfetto realismo (come se si stesse preparando una truffa per il lettore invece che un racconto) eccetto che per il singolo elemento in cui l’autore ha deciso di allontanarsi dalla realtà oggettiva (comunque senza mai tradire la reale psicologia e illusione umana, per come egli le ha conosciute nell’esperienza diretta e nel folklore).”
(H.P. Lovecraft, lettera a F. Leiber, 9 novembre 1936, in Selected Letters, Vol. V, n. 893, in Teoria dell’orrore a cura di G. De Turris.)
Immedesimazione e verosimiglianza del personaggio
La verosimiglianza del personaggio è invece il primissimo requisito per connetterci emozionalmente con lui, e quindi immedesimarci in lui, vedendo tutto con i suoi occhi. Un personaggio che non ha nulla delle caratteristiche del nostro vissuto o del nostro tempo ha poche possibilità di creare questo legame: pensiamo all’eroe Byroniano. Quanti di noi possono davvero immedesimarsi in quei mascalzoni?
Oppure pensiamo a Ligotti. I suoi personaggi sono poco più che tratteggiati. Per una ragione: lo scopo conclamato di questo autore è quello di ricreare le ambientazioni di un incubo come se lo stessimo sognando mentre leggiamo. In questo caso, per esplicita scelta stilistica, il rapporto con il testo è più immediato: non abbiamo bisogno di nessun alter ego che filtri esperienze che stiamo vivendo noi stessi.
All’opposto, pensa a King – S.T.Joshi ha scritto che l’autore di Boston non ha mai scritto nulla se non “soap-opera” – nel quale il ruolo del personaggio e delle sue sfaccettature psicologiche è essenziale. “The Shining” secondo me ne è un ottimo esempio. Secondo me gran parte del successo universale di King si deve, oltre all’originalità delle sue storie, proprio all’attenzione alla componente umana: chiunque si può ritrovare tra le sue pagine.
Il personaggio, quindi, oltre a essere tridimensionale e non stereotipato o asettico, deve essere verosimile: parlare come noi, pensare come noi. Reagire davanti all’ignoto come reagiremmo noi umani: provando a illuminarlo con la ragione del pensiero che ci è propria in quanto uomini.
Che ne dice Lovecraft?
Lovecraft stesso, che è il faro che illumina tutta questa modesta trattazione teorica, deve ancora venire in mio soccorso e, forse tirarmi le orecchie per questo sforzo di categorizzazione. Il Solitario di Providence ripudiava quanto ho appena detto in relazione del personaggio, perché secondo quanto ci dice lui stesso, ripudiando la prospettiva antropocentrica in relazione alla weird fiction,
“L’eroe di una storia del genere non è mai una persona ma sempre un fenomeno o una condizione […]” (H.P. Lovecraft, lettera a C.L. Moore, maggio 1935, in Selected Letters, Vol. V, n. 782, in Teoria dell’orrore a cura di G. De Turris.)
Il modo con cui H.P.L. ci fa immedesimare in un racconto è costituito prevalentemente dalla verosimiglianza della storia, come descritta dall’autore in ogni minimo dettaglio: quanto irrompe il soprannaturale, Lovecraft ci fa immergere grazie a una descrizione scientifica, accuratissima, di tutto quello che il nostro alter ego sta sperimentando, tanto che ci sembra di essere parte dell’equipaggio della Miskatonic University durante l’esplorazione dell’infinita e imperscrutabile distesa Antartica.
O, ancora, ammettendo che in certi casi non vi siano elementi ai quali possiamo ancorarci per compiere quel salto nell’ignoto tipico delle sue storie – penso al ciclo onirico di Randolph Carter – l’iper-descrittività assolve eccellentemente al suo compito.
Et voilà, l’immedesimazione è servita.
La funzione della verosimiglianza
Io sono in parte d’accordo con la visione fenomenica di Lovecraft, infatti la verosimiglianza del personaggio, certe volte – come in storie oniriche o brevissime o negli incubi ligottiani già citati – può non essere un elemento decisivo nell’immedesimazione nel personaggio ma, nell’ottica che ispira la mia riflessione, aiuta senza dubbio. C’è da dire che spesso mi chiedo come sarebbe un racconto scritto da Lovecraft con più attenzione sul versante del personaggio.
“Quello che manca in Lovecraft sono le relazioni umane, che fanno da punto focale e impeto primario in quasi tutta la narrativa, dell’orrore e non.”
Thomas Ligotti, “In conversazione con Weird Tales”, intervista, in “Nato nella paura”, ed. Il Saggiatore, 2019.
Torniamo a noi.
L’immedesimazione, in parole povere, prepara al grande salto. Ad affrontare quella sospensione incredibile delle leggi ordinarie che alla nostra limitata ragione umana risultano essere un postulato e, come tale, insindacabili.
Credo che il personaggio di una storia, in questo caso dell’orrore, sia una sorta di estensione di noi all’interno nel testo: ci aiuta a toccare quell’ignoto e a immaginare che cosa succederebbe se ce lo trovassimo davanti.
Per ottenere il massimo effetto evolutivo in noi lettori dall’altro capo della copertina da una storia dell’orrore soprannaturale, a mio modesto parere, l’orrore primario deve specchiarsi nel protagonista. E viceversa. Serve un conflitto personale, di coscienza.
Quell’orrore, per quanto nella storia possa seguire dei fini che con noi non hanno nulla a che fare e considerarci come formiche – come un Grande Antico o un Dio Esterno in Lovecraft – deve essere il peggiore orrore possibile. Sia per il nostro alter ego, che ha visto e sperimentato in prima persona quella violazione, sia per noi che, attraverso l’idonea tecnica narrativa, siamo spinti a immaginarcelo con i suoi occhi nel modo peggiore in assoluto.
Lo viviamo in prima persona.
Sperimentare il fallimento
Parliamo del fallimento, ad esempio, e non raccontiamoci bugie.
Dimmi, quanti tuoi alter ego nel corso degli anni hai visto avere successo – spesse volte questo successo si identifica nell’aver salva la vita – alla fine della storia?
E quante altre volte il nostro povero noi, pur avendo salva la vita, è rimasto con un amaro in bocca che abbiamo quasi potuto sentire sulla nostra lingua?
Questo è un altro effetto dell’immedesimazione, declinata nelle storie che io e te, se sei qui, amiamo leggere: ci fa trarre un sospiro di sollievo, perché non siamo noi che perdiamo la vita. Non siamo noi ad aver fallito.
Vediamo qualcun altro fallire e patiamo con lui. Poi però ci svegliamo e ci rallegriamo.
No: non siamo noi in quella situazione. Abbiamo solo fatto un’incursione, più o meno breve, in un mondo più o meno minaccioso e inquietante. Ci resta il brivido – almeno si spera – derivato dall’immedesimazione e dall’immaginazione, ma null’altro: siamo tutti interi, in carne ed ossa, nel pieno possesso delle nostre facoltà mentali.
Un versante della nostra personalissima evoluzione dopo la lettura può essere proprio questa: sperimentando il fallimento impariamo ad averne meno paura. Lo conosciamo, anche se su carta.
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Bibliografia:
- Le lettere di Lovecraft che ho citato sono in H.P. Lovecraft, Teoria dell’orrore, a cura di G. De Turris, Edizioni Bietti, 2011.
- Thomas Ligotti, Nato nella paura: letteratura, orrore, esistenza, ed. Il Saggiatore, 2019.