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Oggi leggiamo “Il prodigio dei sogni”, di Thomas Ligotti

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Di Nottuario, una raccolta di racconti di Thomas Ligotti – uscita nel 2017 in Italia con Edizioni Il Saggiatore, quindi abbastanza recente – per ora voglio leggere assieme a te Il prodigio dei sogni.

Se hai presente di chi stiamo parlando, saprai già che tanti componimenti ligottiani sono caratterizzati dalle ambientazioni ovattate che si possono trovare nel mondo onirico e, ancora, sono narrati penna su carta grazie all’accostamento di immagini più che di avvenimenti, esattamente come di solito accade per un sogno.

Ti è mai capitato di svegliarti una mattina e ricordare abbastanza in dettaglio un sogno – in questo caso, un incubo – per poi perderne memoria durante la giornata?

Cosa accade quando cerchi di ricordare? Il tuo cervello cerca di afferrare un’impressione o un concetto piuttosto che un avvenimento e, alla fine, solo le impressioni e le sensazioni sono le cose che ti rimangono di quell’incubo.

Leggere Ligotti per me è esattamente questo: più che di avvenimenti e storie dalle trame complicate, il buon Thomas cerca di lasciarti una sensazione. Il titolo, in questo caso, è tutto un programma.

Sempre se avrai letto già qualcosa di questo autore, saprai che non è raro che si dilunghi in digressioni. Sulle sensazioni – più che sui sentimenti – del protagonista, sulle vicende passate, sui sogni: La Medusa, sempre in Nottuario, non è forse una lunga digressione?

Però, e questo mi piace di Ligotti, il racconto non perde mai l’atmosfera di inquietudine che viene evocata sin dalle sue primissime battute. E le immagini di Ligotti sono davvero potenti, ben studiate: la terza parte di Nottuario rende bene l’idea

Salto la trama, perché avrei poco da dire. Emergerà tutto a tempo debito.

Una delle prime copertine in lingua originale di Nottuario

Ambientazione e temi

Ad Arthur Emerson sembrava che i cigni, perpetui ospiti della tenuta, fossero diventati un po’ strani.”

Ottimo, sappiamo già di chi stiamo parlando. Però non ci limitiamo a quello: da una semplice frase sappiamo che il protagonista possiede una tenuta – quindi un possedimento grande, quindi è ricco – e che la sua tranquillità viene subito messa in dubbio dal comportamento dei cigni.

Quel mattino erano radunati al centro del lago, visibili a malapena nella nebbia lattiginosa che incombeva sull’acqua immobile.”

In poche battute, siamo già immediatamente calati nel suo mondo: un mondo dove i cigni sono “sagome slanciate, spettrali” che si muovono nella nebbia come veri e propri fantasmi.

Non solo, dopo pochissimo viene rivelato che Arthur vive completamente solo in quella tenuta che abbiamo già intuito essere immensa: la sensazione che Ligotti ha voluto evocare ci piomba immediatamente addosso, cioè la solitudine.

Il protagonista è da solo, in un immensa tenuta avvolta dalle forme tenui e avvolgenti della nebbia che aleggia su di un lago e circonda qualsiasi cosa.

Non è una novità, ma adoro come è resa in questo racconto: i protagonisti di Ligotti sono sempre costantemente – a mio modo di vedere – sopraffatti dalla solitudine esistenziale che qui è abilmente evocata.

Sei lì da solo, “ultimo sopravvissuto della vecchia famiglia” e qualunque cosa succeda, caro mio, te la devi vedere sempre da solo. Anche se, in questo caso, Emerson sembra essere pienamente consapevole, quasi rassegnato, della “propria irrilevanza” esistenziale.

Questo è un concetto che si ritrova anche, con forza, in Lovecraft. L’autore di Providence però lo ricollega poi quasi immediatamente alle sorti del genere umano come razza: per quanto i suoi protagonisti siano anche essi individualisti, la riflessione si sposta subito sul piano delle conseguenze cosmiche.

Cosa che, anche se ne Il prodigio dei sogni i riferimenti a Lovecraft mi sembrano essere davvero abbondanti, non accade per il tipico protagonista delle opere di Ligotti: la vicenda nasce e muore con lui. È lui e solo lui che si deve confrontare, come individuo, con gli aspetti più oscuri e ombrosi del vivere.

Io il lago della tenuta degli Emerson me lo immagino più o meno così. Cigno incluso, ovviamente.

Il prodigio dei sogni: parole e paura

Che bello, andiamo subito al sodo!

La paura striscia tra l’inchiostro ed emerge principalmente all’inizio, mettendoci una pulce nell’orecchio: qualcosa è sbagliato.

Solo dopo aver suggerito ed evocato l’orrore imminente nell’incipit di questo componimento, Ligotti spiega cosa c’è di davvero sbagliato. Ne spiega la causa e accenna anche all’effetto, ma noi lettori non possiamo trarne sollievo, perché il terrore che si prova è più simile all’angoscia esistenziale che a un vero e proprio brivido.

La domanda fondamentale sottesa al racconto è questa: anche conoscendo il nostro destino, possiamo accettarlo? Teniamola a mente.

I segni che il velo – simboleggiato dalla nebbia – che separa il mondo reale da quello esterno sempre presente e in agguato, come vuole ogni buon componimento che possa definirsi weird, si sta per squarciare sono numerosi.

Prima con il comportamento dei cigni, che di per sé non potrebbe valere nulla tanto che lo stesso Emerson aveva dapprima pensato che i pennuti fossero turbati da qualche predatore.

Il nostro protagonista inizia poco dopo a fare dei sogni inquietanti – altro richiamo a HPL – che hanno ad oggetto qualcosa che risiede al di là del nostro mondo. Al momento solo in quello onirico, per quanto disturbante:

Poi, oltre le nubi di foschia bizzarramente disposte a mezz’aria, vide un’ombra la cui cupa mostruosità faceva apparire le altre definite e radiose. Era un colosso deforme, un monumento sfigurato inciso nell’assoluta densità dell’abisso più nero. […] Lui fissò la cosa ciclopica in una trance raccapricciata, finché la massa montuosa non cominciò a muoversi, allungando lentamente una parte di sé, distendendo quello che avrebbe potuto essere un braccio malformato.”

Ancora, il giardiniere, altro “visitatore occasionale della tenuta”, riferisce a Emerson che il gatto di questi inizia a uccidere – a quanto sembra per il solo gusto di farlo – piccoli animaletti e li dispone in un modo che suggerisce qualche oscura geometria, qualche oscuro disegno:

[…] il locale era stato trasformato in un carnaio di animaletti […]” un vero e proprio “santuario della mutilazione e della morte.”

[…] Emerson pensava che esistesse un qualche metodo, nel modo in cui i cadaveri delle creature assassinate erano posizionati in terra.”

Tutto si stranisce, assumendo contorni soprannaturali e grotteschi: questi sono i primi segnali di un’intrusione dall’esterno simboleggiata dalla vista di una certa macchia di muffa – un richiamo alla decomposizione, e quindi alla morte – che Emerson avvista nella stanza dove il gatto ha iniziato ad officiare quello che sembra uno strano rituale. E che, al nostro alter ego, ricorda il sogno della notte precedente.

Ma non solo, come vedremo ora.

A questo punto i richiami a Lovecraft si fanno più intensi, e vengono alla luce nella ricerca e nel ritrovamento di un quaderno “un’antica cronaca” nel quale il protagonista aveva raccontato i dettagli di un suo viaggio in Umbria, a Spoleto. Emerson inizia pertanto a riviverli secondo l’atmosfera ovattata dei sogni della quale parlavamo prima e giunge a delle implicazioni terribili.

Piccola considerazione estemporanea: Ligotti sembra molto affascinato dalle impressioni che si possono ricavare nei borghi. “Sospensione” mi sembra il concetto chiave. Pensaci bene. I borghi sono così distanti da noi e dai nostri ritmi che è come se il tempo a cui siamo abituati in città rallentasse fino a sospendersi, creando i presupposti per l’ambientazione onirica. In Nottuario si può vedere benissimo qualche pagina più avanti perché, ne Lo Tsalal, il Borgo scheletrico assolve con eccellenza a un compito del genere.

Certi posti di notte hanno proprio un fascino sinistro. Se sono luoghi sconosciuti e deserti ancora meglio.

I richiami a H. P. Lovecraft

Lovecraft, dicevo, emerge dalla nebbia della tenuta di Arthur Emerson quando lo stesso ricorda di avere stretto un certo patto d’innanzi all’altare dell’amorfo dio Cinotoglice, in occasione del suo viaggio in Italia. Ma chi è questa entità misteriosa? Nel racconto, Cinotoglice, viene definito come

il dio senza forma, il dio dei cambiamenti e della confusione, il dio delle decomposizioni, il dio necroforo degli dèi e degli uomini […]”.

Perché Lovecraft? Bene, secondo me, intanto, la somiglianza è nelle forme: l’idolo sull’altare che citavo prima è totalmente amorfo, totalmente diverso da quello che ci si può ragionevolmente aspettare nell’iconografia sacra delle più antiche divinità, sempre raffiguranti dèi antropomorfi. Da qui emerge il primo richiamo:

[…] un oggetto che non riuscivo a definire, disgraziato e informe, forse il resto liquefatto di un’eruzione vulcanica passata, di certo non l’immagine di un’antica divinità.”

Più avanti, sempre riguardo all’idolo:

Verso la cima della scultura mutilata, un’appendice simile a un braccio di allungava in una presa impietrita, posizione che sembrava mantenere da infiniti secoli, movimento iniziato che pareva poter riprendere, e concludere, in qualsiasi istante.”

Il secondo richiamo è concettuale, perché Cinotoglice è definito il dio necroforo, letteralmente “colui che porta la morte” agli uomini e agli dèi.

Se gli uomini sono irrilevanti perché muoiono, che dire degli dèi? Che dire del loro ruolo in un pantheon che, a differenza di come noi umani immaginiamo l’essenza eterna della divinità, può essere soltanto temporaneo prima che sopraggiunga l’unica verità universale rappresentata da Cinotoglice, il dio che porta la morte?

Nelle opere Lovecraftiane si lascia intendere che gli stessi dèi siano mortali semplicemente perché saranno dimenticati. Non esistendo se non nelle speranze degli umani, una volta che questi ultimi saranno estinti, con loro periranno le loro “misere” divinità.

Lovecraft qui si vede molto bene: nella poesia Ognissanti in Periferia proprio HPL ha delineato un principio fondamentale della sua poetica: non importa con quale orrore ci confrontiamo – ghouls, vampiri, arpie –, tanto nulla è eterno. Tutto, invece, sarà indirizzato verso un’unica, ineluttabile destinazione. Cioè l’abisso del tempo.

“S’innalzi pure il gemito dei lèmuri,

lebbrose guglie giungan fino al cielo…

non cambia nulla: ché l’antico e il nuovo

insieme son ravvolti nelle pieghe

del comune destino: morte e orrore.

I Segugi del Tempo sono pronti

le carni d’entrambi a dilaniare.”

(Hallowe’en in periferia, H.P. Lovecraft, da Il vento delle stelle, cura e traduzione di S. Fusco, Aghpa Press, 1998.)

Le rovine sono una testimonianza vivente dell'orrore. Adesso sono solo scheletri lebbrosi ma un tempo brulicavano di vita.

L'orrore de "Il prodigio dei sogni"

Il vero orrore per Lovecraft e Ligotti è esistenziale, con la precisazione che, per quest’ultimo, come emerge dal simbolismo del dio necroforo, l’unica verità è la morte: e qui si vede bene il richiamo prettamente individualistico. Poco importano le sorti dell’umanità – richiamate implicitamente, così come le sorti dei loro dèi dal Maestro di Providence –, quello che conta è il nostro alter ego alle prese con i suoi orrori che, e questo Ligotti lo sa bene, sono anche i nostri.

Sì, perché nessuno di noi avrà mai a che fare con un demone in una casa deserta o con un fantasma rancoroso che si manifesta la notte di Ognissanti, ma tutti prima o poi dovremo confrontarci con Cinotoglice, il dio che porta morte.

Ed è forse la consapevolezza, serpeggiante tra le righe, che prima o poi toccherà anche a noi, che adesso siamo tranquilli a leggere, confrontarci con quel dio amorfo – la morte è amorfa, non trovi? Per chi crede può trasformarsi in un Dio misericordioso, per chi no, nel nulla – che riesce così tanto a perturbarci.

Ebbene, il protagonista, conscio del suo ineluttabile fato, cioè la morte, ha scelto in Umbria il modo di poterlo portare a compimento attraverso il patto con il necroforo:

“[…] concepii il mio congedo ideale da questa terra: un dramma percorso da strani portenti, presto sviluppato da sogni e visioni coltivati in un’atmosfera di sublime terrore, che crescono da un giorno all’altro come un fungo vistoso in una cantina dimenticata.”

“E come gli altri sprofondano nella propria morte, così io nella mia mi sarei liberato.”

Proprio alla fine, e solo alla fine, l’uomo è libero di scegliere la strada costellata di portenti indicibili che l’avrebbe poi condotto tra le braccia della morte: il destino e la sua inevitabilità sono temi tipici della poetica di Ligotti, caratterizzata – come in HPL – da fortissimi echi filosofici.

Ad Arthur Emerson non resta altro, presa coscienza del suo destino, che affrontare l’orrore che esso stesso si era scelto come ultimo atto di vita, forse proprio per darle un senso che altrimenti non avrebbe avuto.

Manco a dirlo, l’orrore squarcia il velo ed emerge dalla nebbia “discendendo sulla sua vittima”.

“[…] forse era il momento di lasciarsi sopraffare dalla meraviglia dell’ignoto e della maestà della sorte. Era così che si faceva nel mondo del destino segnato?”

Possiamo davvero accettare il nostro destino, quindi, per quanto orribile esso sita?

No. Non può esistere un abbandono vero e proprio: il destino, per quanto ineluttabile, non è mai facile da accettare del tutto e, proprio alla fine, emerge con forza dalle pagine de Il prodigio dei sogni tutto il pessimismo ligottiano. La sua essenza tragica è simboleggiata dall’orrore soprannaturale con il quale noi lettori dobbiamo confrontarci:

“Fu soltanto all’ultimissimo istante che l’atteggiamento apatico di Arthur Emerson lo abbandonò”

lasciando che le sue urla si unissero a quelle dei cigni.

Spero che la lettura che abbiamo fatto assieme ti sia piaciuta. Posso anticiparti che il prossimo racconto di Oggi leggiamo sarà uno che a me ha davvero turbato. Chissà di che si tratta? 

  • Le citazioni de Il prodigio dei sogni, sono tutte tratte da Thomas Ligotti, Nottuario, edizioni Il Saggiatore, 2017.
  • Hallowe’en in periferia di H.P.Lovecraft lo trovi ne Il vento delle stelle, cura e traduzione di S. Fusco, Aghpa Press, 1998.