“Ronda di notte” è stata la primissima storia di Campbell che abbia mai letto e, per questo, ci sono molto affezionato. Diciamo che se ho approfondito il mio personalissimo discorso con lo scrittore inglese di Incubi e Risvegli, una delle mie raccolte preferite, tanto si deve all’atmosfera minacciosa e cupa che ho respirato assieme all’agente Sloane in queste – pochissime, devo dire – pagine.
Sì, perché il racconto è abbastanza breve. Proprio per questo non mi dilungherò troppo sui dettagli della trama – ci sarebbe davvero poco da dire anche se volessi farlo! – e sulle tematiche che, vista la brevità del racconto, sono altrettanto brevi e ben definite.
Rilevante eccome, invece, sarà il paragrafo dedicato a come Campbell riesca a trasmettere l’atmosfera aggressiva e inquietante che, in componimenti di poche battute come questo, è praticamente tutto; non nego, infatti, di aver tratto ispirazione dalle atmosfere e dalle descrizioni campbelliane per scrivere “Toc-Toc”, che è stata la mia prima pubblicazione. Anche in questo caso, trattasi di componimento brevissimo: non tocca nemmeno quota diecimila caratteri!
Basta con l’autobiografia, vediamo cosa ci riserva la carta.
La trama
L’agente Sloane, indagando su di un macabro omicidio avvenuto poco tempo prima nei pressi di un museo – egli stesso aveva scoperto il corpo –, segue l’istinto e si ritrova proprio davanti al luogo di quel primo delitto.
Non riesce a spiegare come quel museo, nel quale si affretta ad entrare, gli ispiri tanta inquietudine. L’unica cosa di cui è certo è di riuscire a cogliere sul fatto l’omicida seriale. Sì, perché quella notte è impregnata del sentore della morte.
Dopo una sconvolgente rivelazione, i destini dell’agente Sloane e del custode del museo sembrano andare in un’unica, inaspettata, direzione: Solane è un licantropo e il suo compagno la sua nuova vittima.
La violenza: il tema
Campbell condensa in poche righe il vero e proprio tema di “Ronda di notte”, cioè la violenza. Principalmente questa è identificata attraverso il richiamo alla creatura mitica violenta per eccellenza, ossia quella che si può ricondurre all’archetipo della bestia: il lupo mannaro.
Sloane sente la violenza intorno a sé e ne è quasi disturbato, ne ha quasi paura:
“[…] una volta vinta la paura della paura della violenza che lo circondava, si era sentito ossessionato dall’idea di sopprimerla […]”
L’essenza del lupo mannaro, il mezzo scelto da Campbell per raccontare la violenza con pochissime parole, emerge subito chiaramente, anche se la creatura compare solo l’ultimo paragrafo, principalmente attraverso il richiamo all’istintività:
“ Sloane […] si era infuriato perché era sicuro che non avrebbero mai approvato il uso metodo. L’intuizione non faceva parte della procedura di polizia.”
“[…] per quanto ogni bottiglia rotta all’ingresso di un pub lo facesse pensare al terrore, ugualmente avvertiva la presenza della violenza nelle tranquille strade suburbane, dietro file di auto addormentate, e sapeva per istinto quali tende celassero rabbia violenta, grida, e porcellane in frantumi.”
“Avvertiva sin nel profondo ciò che i suoi superiori accettavano a fatica: che la violenza circonda noi tutti.”
Il sentire istintivo della bestia assopita richiama la violenza; una violenza che sembra, come trapela da queste frasi, essere distintiva dell’uomo in quanto tale. Campbell è bravissimo a farcelo intuire con il richiamo alle tende: la violenza domestica di solito non si vede, eppure l’istinto di Sloane è talmente sviluppato che la percepisce quasi come fosse una bestia.
L’autore anticipa quello che non va, ce lo suggerisce velatamente.
"Ronda di notte": Parole e Paura
La violenza e il custode
Come Campbell riesce nell’intento di rendere un’atmosfera così minacciosa? Beh, essenzialmente attraverso lo strumento dell’attesa: sappiamo già – noi e Sloane –, grazie ai precedenti richiami all’istinto, che c’è qualcosa che potrebbe accadere da un momento all’altro.
Sappiamo che ha a che fare con la violenza ma non sappiamo come e in che veste colpirà.
Strumento adattissimo all’occasione infatti è quello rappresentato dalla figura del custode, un personaggio creato appositamente per farlo interagire con Sloane ed enfatizzare la sua discesa nel vortice della violenza
Non è facile creare un personaggio definito attraverso pochissime battute, ma Campbell ci riesce benissimo adottando uno stratagemma intelligente: il custode, che nemmeno ha un nome, è identificato dell’uso di un intercalare tipico. Cioè chiama Sloane “figliolo” ogni qual volta apre bocca.
Già solo per questo, che lo rende più simile a una macchietta che a un vero e proprio personaggio, il custode è di per sé caratterizzato. Senza bisogno di altri interventi.
Vediamo come ce lo presenta Campbell, cogliendo l’occasione per richiamare alla mente di Sloane un’idea sgradevole:
“Mentre la luce incontrava Sloane e indugiava su di lui, un’oscura figura prese corpo intorno ad essa; un volto si formò dalle ombre come un palloncino grinzoso.”
Subito un richiamo – simile al flash della luce di una torcia – studiato apposta per suggerire violenza:
“A una festa, quand’era piccolo, Sloane si era depresso e incupito sempre più nel corso della serata; stanchi di cercare di coinvolgerlo nei loro giochi, gli altri bambini l’avevano picchiato con i palloncini.”
Altre volte questa attesa è esplicitata dallo stesso autore, come possiamo dedurre dai continui richiami – vero e proprio tarlo nella mente del detective – alla violenza:
“[…] Sloane piegò le spalle, come per scuotersi di dosso la violenza incombente.”; “L’aggressività si risvegliava.”; “Sloane sentì la violenza venirgli incontro e gonfiarsi. Si fermò, spaventato.”
L'ambientazione
Prima di arrivare al dunque, non si può parlare di Campbell senza sottolineare l’attenzione che lo stesso riserva, in ogni suo racconto, all’ambientazione; in questo caso, l’ambientazione ha il ruolo di risvegliare tutte le sensazioni spiacevoli che sta vivendo il nostro alter ego.
Inizialmente serve a metterci in guardia, a tenerci sull’attenti.
Sotto al “freddo arco del soffitto” di quell’edificio immenso – stiamo parlando di un museo di notte, un luogo deserto, imponente e terrificante. – del quale non si possono accendere le luci, notiamo che:
“I muri erano rivestiti di buio; volti dipinti baluginavano nel vuoto.”
Un’immensità che è bene suggerita:
“La scalinata saliva attraversando un vuoto in cui risuonavano i loro passi. Il marmo era scivoloso e appuntito.”
“L’aria era pesante e inerte; persino la violenza pendeva inerte, e il custode sembrava imbalsamato come una mummia.”
Poi, all’ultimo paragrafo, la descrizione assume i contorni di un vero e proprio incubo:
“Il vuoto che circondava la scala risuonò intorno a lui […]: nel fascio di luce, quadri, colonne, scalini, guizzarono e ondeggiarono.”
“[…] il buio gli sembrava carico di armi, ciascuna delle quali poteva mutilarlo”
“Tutto il suo corpo formicolava; ogni nervo sentiva l’incombere di una minaccia mortale. Udiva dei passi felpati, ma la stanza era piena di echi […]”
Vocaboli e violenza
Fermiamoci qualche istante sulla scelta di certi termini.
Nota, soprattutto, l’esistenza di due distinte sfere semantiche: da una parte ritroviamo quella riconducibile all’attesa. Noi e il nostro alter ego ci aspettiamo qualcosa che però sembra latitare, pendere “inerte”, addirittura “incombere” come incombe un presagio. Persino il nostro compagno di viaggio sembra una “mummia” e, qui, Campbell è quasi ironico: una mummia come quelle che ci ha appena presentato nelle loro teche.
Dall’altra parte, invece, come da contraltare all’attesa della violenza, noi individuiamo una serie di elementi che ci mettono ancora più in agitazione: sono cose che effettivamente accadono, ma che non risolvono il mistero finale, per così dire.
Prova a immaginarlo, magari su grande schermo: pensaci seduti fianco a fianco sulle poltroncine di un cinema. Ecco, sappiamo benissimo entrambi che nella stanza dove è il protagonista c’è anche il classico mostro. Non lo vediamo ma seguiamo attentamente una serie di piccole rivelazioni alla luce di una torcia. È davvero possibile che dei quadri, i cui volti dipinti “baluginano al buio” come degli spettri, e degli scalini “guizzino” e “ondeggino”. Di per sé non sono una minaccia, ma contribuiscono a crearla. Fanno parte del climax che serve ad aumentare la tensione in sala e ad annunciare la risoluzione finale.
Licantropi e frammenti lunari
Tutto questo porta noi e Sloane alla conclusione della vicenda: ebbene, la fonte della minaccia è identificata dal poliziotto nel reperto contenuto in una teca, raggiunta dopo aver picchiato il custode in un crescendo di violenza:
“Il custode si mosse davanti alla teca di vetro. La sua faccia si avvicinò a quella di Sloane, dondolando come un palloncino. […] Sloane colpì: pugni alla cieca come aveva fatto con i bambini alla festa.”
La presenza della teca è il vero e proprio elemento innovativo di questa storia di licantropi, infatti, come io e te siamo consapevoli, il lupo mannaro tradizionale ha bisogno della luna piena per trasformarsi. E noi sappiamo che, il fatto che in questa storia ci sia o meno la luna piena è un dettaglio totalmente irrilevante – altrimenti avremmo avuto, senza nemmeno un accenno, un bel buco di trama.
No, qui la trasformazione è una reazione quasi organica, come quella che si può avere a contatto con una sostanza tossica, e che poco sembra avere a che fare con gli effetti magici del plenilunio.
Il corpo di Sloane, quindi, come aveva fatto la sera del precedente delitto durante la quale era di turno, inizia a mutare alla vista del fantomatico reperto: una “roccia lunare”.
“Ormai la scritta era senza significato; il significato era tutto racchiuso nella pietra grigia all’interno della teca, sotto la scritta ROCCIA LUNARE.”
Puoi leggere “Ronda di notte” in “Wolfmen. Storie di lupi mannari“, a cura di Stephen Jones, Newton Compton, 2010.