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Oggi ti racconto “La Kikimora”

Finalmente ti racconto “La Kikimora”, un mio racconto fresco fresco di pubblicazione e classificato al secondo posto dell’edizione numero 61 del Nero Premio.

Spero che tu, cara lettrice o caro lettore, possa divertirti a leggere queste righe – e, perché no, il racconto originale – esattamente quanto mi sono divertito io a scrivere quelle trentamila battute.

Per questa nostra chiacchierata, ho deciso di affrontare l’argomento su tre distinti livelli: classificazione, temi e contenuti. Non perdiamo altro tempo e tuffiamoci nel mondo della piccola Irena, vera protagonista della storia, e di sua nonna Danica.

La Kikimora, come rappresentata dalla tradizione slava.

"La Kikimora": un racconto folk horror

Credo che la classificazione che possiamo attribuire a “La Kikimora” sia da ricondurre né più né meno che a quello che è comunemente definito come Folk Horror.

Il folk horror è un sottogenere letterario caratterizzato sì da tutti i tòpos della letteratura dell’orrore, ma declinati attraverso il connubio con elementi tipicamente folkloristici: contesti rurali; comunità sperdute con tradizioni particolari; leggende tipicamente riconducibili a una certa terra e via dicendo.

Così, secondo un validissimo articolo di Book Riot che ti invito a leggere:

The folk culture within folk horror often comes from groups of people in remote, rural settings. They have developed practices or rituals that wreak havoc on unsuspecting outsiders who happen upon them.”

Primo elemento interessante: scorrendo in lungo e in largo internet, principalmente questo sottogenere viene riferito a film o serie TV. “A classic Horror Story”, “Midsommar”, “The VVitch” e quell’abominio cinematografico de “Il prescelto”.

Come cultore della letteratura dell’orrore, mi sembra davvero riduttivo ricondurre una tematica così interessante solo a un sottogenere cinematografico. Diciamolo con forza: in letteratura ci sono un sacco di esempi di folk Horror! Mi vengono in mente, su tutti, “La lotteria” di S. Jackson, “The Ritual” di A. Nevill e “I figli del grano” di S. King.

Non solo, un altro luogo comune che sembra aleggiare sul questo sottogenere – principalmente si deve all’influenza del cinema – è che i protagonisti di queste vicende siano sempre e solo i poveri viaggiatori che, per un motivo o per l’altro, hanno avuto la sfortuna di incappare in una comunità assurda.

Falso! Ovviamente è un espediente narrativo, certo. Può essere comodo, certo. Però non riguarda la totalità delle opere inerenti a questo sottogenere. Ne “La lotteria” tutto si consuma in comunità. Ne “La Kikimora” pure.

Fattorie cupe sotto un cielo sinistro.

Kikimora: miti e leggende

Sai che cosa è una Kikimora?”

Bene. Passiamo adesso a parlare di cosa caratterizzi a tutti gli effetti “La Kikimora” come un racconto folk horror.

Inizierei dall’ambientazione. Ho scelto di ambientare questo racconto nel dopoguerra in Jugoslavia – ci torneremo poi –, in una piccola comunità rurale ai margini di Škofja Loka, nell’alta Carniola. La cosa che trovo fantastica di questo piccolo borgo medievale nell’odierna Slovenia è che, anche solo a vederlo dall’esterno, sembra di essere catapultati direttamente in un altro tempo, in un altro mondo: un castello domina il centro cittadino, un ponte ad arco cavalca il Šelska Sora, una miriade di tettucci in mattonelle stretti gli uni contro gli altri suggeriscono stradine altrettanto anguste. Sulle collinette che circondano il borgo sorgono boschi fitti e oscuri, custodi di leggende e di tradizioni millenarie.

E pieni di misteri che si perdono nella notte dei tempi.

Proprio qui vorrei introdurre l’elemento Folk. Passi, ovviamente, la scelta dell’ambientazione. L’elemento che però caratterizza in un senso così marcato questo racconto è il suo titolo.

Skofja Loka, il suo fiume e le sue cupe colline.

Kikimora e Leshy

La Kikimora, infatti, è una creatura del folklore slavo: a questa presenza inquietante è riconosciuta una presenza sul territorio notevole, basti pensare che se ne parla anche in Siberia!

Quindi, sai cosa è una Kikimora?

Lungo becco e zampe di gallina, emaciata e pallida, con due bracieri ardenti al posto degli occhi.”

Kikimora è uno spirito maligno. Si dice che infesti le case e che vessi coloro i quali non tengono in ordine l’abitazione. La visione condivisa che le varie popolazioni hanno di questa entità è quella alla quale mi sono rifatto io: lungo becco e zampe di gallina. Secondo alcuni, Kikimora si introdurrebbe nelle abitazioni attraverso i buchi della serratura, motivo per il quale ai bambini viene insegnato fin da bambini a tapparli con della stoffa:

[…] prima di ogni notte, Irena chiudeva le fessure della toppa con della stoffa; anche se suo padre le aveva intimato di smettere quando era più piccola, non le importava e aveva finito per farlo di nascosto.”

Adoro il folklore. Quello slavo poi mi piace particolarmente. La leggenda della Kikimora, da me reinterpretata per fini narrativi, è affiancata da quella di Leshy: gigantesco dio cornuto e capriccioso signore delle foreste. Sono sempre stato affascinato dalla figura del dio cornuto pagano, e sono stato sorpreso – documentandomi per questo racconto – constatare come sempre lo stesso archetipo si sia ripresentato in tempi e luoghi eterogenei e con nomi diversi quali Cerunnos, Pan, Leshy. Non potevo perdere l’occasione.

"La Kikimora", tra destino e fede

Un aspetto particolare della leggenda della Kikimora mi è servito come spunto narrativo: certe popolazioni sostengono che avvistare una Kikimora voglia dire morte sicura.

“Incrociare il suo sguardo voleva dire che la morte sarebbe venuta a farti visita di lì a poco.”

Adoro questo genere di leggende: cito, per completezza, l’analoga figura del Cane nero. Incrociare gli occhi con uno di questi spiriti, secondo una credenza diffusa in tutto il Regno Unito, voleva dire presagio di sventura e morte. J.K. Rowling ha attinto a questa figura per il suo “Harry Potter e il prigioniero di Azkaban”; prima di lei, solo suggerendo il soprannaturale (qui puoi approfondire il discorso), aveva fatto lo stesso A. Conan Doyle ne “Il mastino di Baskerville”.

Tutto questo per dire che uno degli aspetti più importanti che emergono dal mio racconto è quello dell’influenza del destino sulle nostre esistenze: possiamo dirci davvero spacciati in certe circostanze? È davvero tutto finito quando affrontiamo a viso aperto un presagio di morte che, ai giorni nostri, può ahimé assumere molte e terribili forme?

Non solo. “La Kikimora” è una storia di fede. Ad un certo punto della storia, due persone saranno chiamate a provare la propria fede anche in faccia a un destino beffardo. È una fede oscura e blasfema, espressione di strani culti e rituali orrifici. Questo è l’elemento che, forse più di tutti, riconduce con assoluta forza “La Kikimora” al folk horror: una fede orrifica, siamo d’accordo, però comunque fede.

[…] tornava loro in mente uno degli ultimi avvertimenti che la megera aveva proferito. Non avrebbero mai dovuto guardarsi indietro, qualsiasi cosa avessero visto o sentito.”

Qualcosa spunta in mezzo ai rami.

"La Kikimora": i temi principali

Se dovessi però ricondurti a un tema principale, non potrei non citare il conflitto tra modernità e tradizione. La Jugoslavia di Tito è stato un paese caratterizzato da un forte contrasto tra una nuova cultura e – ovviamente, senza tirare in ballo culti misteriosi – le resistenze di una popolazione eterogenea: i territori della ex-Jugoslavia comprendevano pressoché tutta la Penisola Balcanica. Decine di popoli diversi. Decine di culture e credo. Paesi distrutti dalla guerra e divisi ideologicamente, spesso con esiti tragici.

“[…] devi vedere che facce che hanno quando raccontano delle urla che si sentono oltre il Šelska Sora, vicino al castello. […] Eppure dovrebbero sapere che cosa i loro amici dell’Esercito di Liberazione hanno fatto ai collaborazionisti durante la guerra.”

Ebbene, nonostante lo sforzo per imporre una certa parvenza di ordine – seppure attraverso un regime – certi elementi sfuggono per forza alla totalizzazione militare: alcune credenze si passano di generazione in generazione e sono refrattarie a qualsiasi tentativo di sradicarle.

“Tutte le nostre ave hanno partorito tra queste mura, eccetto per me e per te.”

Ancora, in secondo piano, troviamo il tema della guerra. Il papà di Irena è un soldato, ma la ragazzina è comunque consapevole, nella sua innocenza, di doversi tenere alla larga da certi soggetti. Stiamo parlando pur sempre di un regime; pur sempre di collettivizzazioni forzate.

Un ultimo interrogativo sembra, quindi, porsi alla mente del lettore: cosa è peggio? Lo sparo di un soldato o gli occhi abominevoli di una Kikimora?

“Anche a Lubiana, dove era di stanza suo padre, qualche bambina lo immaginava come un fantasma per non averne paura? […] Non era possibile che qualcuno potesse avere paura di suo papà, buono com’era. Non avrebbe fatto male nemmeno ad una mosca, figuriamoci a dei bambini.”

Qualora avessi trovato degli elementi in comune tra certe opere di Lovecaft e questo sottogenere consulta questo articolo, è davvero illuminante e molto interessante: Folk horror as speculative sociology | by John Ohno | Modern Mythology

Puoi leggere “La Kikimora” – sarò onorato se vorrai farmi sapere la tua opinione – ne “Il figlio del tuono”, AA.VV., Silele Edizioni, 2022.