“Dove non c’è immaginazione, non c’è orrore.”
Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso, Feltrinelli Editore, 2015.
Devo dirti la verità, quando ho scoperto che Conan Doyle si fosse cimentato nella scrittura di storie dell’orrore non riuscivo a crederci.
Pur essendo a conoscenza del fatto che il papà di Sherlock Holmes avesse aderito allo spiritismo poco prima di morire, non riuscivo proprio a capacitarmi di come uno dei moderni fondatori della detective-story avesse partorito un certo genere di racconti. Poi mi sono ricordato del famoso Dupin, investigatore nato dalla penna di Poe, e lo stupore è scemato del tutto: al suo posto è rimasta solo curiosità.
Quindi, di cosa parliamo?
In questo articolo tratterò essenzialmente del mio racconto preferito tratto da una meravigliosa raccolta intitolata “A caccia di Spettri”. Il mio intento è mostrare come Doyle sia arrivato vicinissimo alla più moderna concezione della letteratura dell’orrore come la viviamo noi adesso, nel XXI° Secolo e, più in particolare, all’accezione cosmica introdotta da Lovecraft.
Troverai, come sempre, tutti i riferimenti bibliografici alla fine di questo nostro piccolo incontro.
Una piccola precisazione
In alcuni dei racconti in “A caccia di spettri”, Doyle risolve la storia – nel quale gli spunti orrifici sono magnificamente descritti – con delle spiegazioni ordinarie. A mo’ de “Le Avventure di Sherlock Holmes”, certi episodi terrificantemente narrati come “Il demone del capanno” si risolvono con un finale che a me, da buon cultore del soprannaturale letterario, lascia l’amaro in bocca.
Se hai presente “Il mastino dei Baskerville”, saprai bene di cosa sto parlando. Dopo averci deliziato con un’ambientazione magistrale – una lugubre e desolata brughiera –, dopo aver suggerito la presenza di un mastino demoniaco assetato di sangue che perseguita una casata maledetta, ecco che arriva Holmes e, spiegando, toglie la magia a tutto.
Certo, da Sherlock Holmes ce lo aspettiamo. E anzi, ce lo auspichiamo!
In certi racconti di questa raccolta, parafrasando Lovecraft, non possiamo ritrovare quegli spunti di orrore cosmico che tanto amiamo. L’autore infatti, come in voga nell’Inghilterra della fine dell’Ottocento, ha la smania di spiegare troppo, persino per l’orrore più selvaggio.
Siamo noi umani che, preda dell’orrore, abbandoniamo la ragione e diamo delle interpretazioni irrazionali agli effetti di quei fenomeni dei quali Holmes rideva. Quasi ce lo vedo: “Non c’è nessun demone in quel capanno: vi ho presi in giro!”
Le influenze della vita di Doyle
Uno dei più bei racconti che ho letto in questa raccolta è “Scherzare con il fuoco”. Proprio qui si riesce ad apprezzare l’influenza che certe tematiche hanno avuto sulla vita di Doyle, perché essenzialmente si tratta di un racconto su una seduta spiritica finita male. Proprio qui mi sembra il caso di ricordare come il papà di Sherlock Holmes fosse notoriamente un convinto spiritista e avesse tenuto la presidenza di una loggia massonica.
In un altro caso – “Cercasi spettro” – Doyle sembra prenderla sul ridere. La spiegazione finale infatti è naturalissima e si risolve in un unico, grande consiglio: non dare retta ai ciarlatani. Splendida è la citazione ai lavori di Poe durante la presentazione agli acquirenti degli spettri più adatti ad infestare la loro abitazione:
“ […] le ossa aguzze spuntavano dalla pelle scarnificata e i lineamenti erano di un colore plumbeo. La figura era avvolta in un sudario che sul capo formava un cappuccio, sotto la cui ombra, due occhi diabolici, affossati nelle loro mostruose cavità, avvampavano e sfavillavano come due tizzi ardenti. […]
«Sono l’americano ghiaccia-sangue – disse, con una voce che sembrava venire in un sordo mormorio dalla terra sottostante –. Sono io, quello autentico […] l’incarnazione di Edgar Allan Poe.» […]”
Ad ultimo, se mai ci fosse bisogno di una ulteriore prova dell’influenza di certi ambienti sulle tematiche di Sir. Conan Doyle, guardiamo a “Il grande esperimento di Keinplaz”, una storia di ipnotismo e mesmerismo.
Sul mesmerismo, teoria scientifica antenata dell’ipnotismo aveva scritto anche Poe in “Rivelazione Mesmerica”. Insomma, mi sembra che più che su un chissà quale linguaggio iniziatico – immagino che invece le opere di Blackwood ne siano piene – l’influenza delle correnti soprannaturali del tempo di Doyle si è dispiegata con tutta la sua forza nella scelta dei temi e delle ambientazioni
"Orrore ad alta quota", Parole e Paura
“Questo nostro mondo sembra essere separato grazie a un tenue e precario margine di sicurezza da un pericolo quantomai sconcertante e imprevisto.”
Il racconto ruota intorno a un sinistro taccuino macchiato di sangue – il Frammento Joyce-Armstrong – rinvenuto a seguito di un disastro aereo, e degli orrori in esso riportati.
Joyce-Armstrong, il pilota al quale era appartenuto quel taccuino, si era determinato ad effettuare una ricognizione “negli strati più alti dell’atmosfera” per via delle singolari circostanze nelle quali, ultimamente, molti piloti temerari erano stati vittima di strani e terribili incidenti.
Subito Doyle ci mette in guardia: in una delle prime righe ci dice già cosa dobbiamo aspettarci. Il nostro mondo può essere in pericolo. C’è qualcosa che ha provocato quel disastro aereo – il narratore ha già letto la cronaca dell’aviatore: ce la sta presentando – ed è totalmente incomprensibile.
Non apertamente, ma con richiami sottili al mondo del non conosciuto. Ad esempio, seppure non rilevante per la trama, nelle macchie di sangue appartenute all’aviatore viene rinvenuto “qualcosa che ricorda da vicino l’organismo della malaria” e che rimanda, almeno mentalmente, alla connessione con l’orrore che ci verrà tra poco presentato.
Il non conosciuto e la "giungla"
Ponendoci dalla prospettiva di un contemporaneo di Doyle, ecco servita la componente immaginifica giusta per creare le premesse di un ottimo racconto così simile al moderno weird. Cosa ne sapeva un uomo del 1913, anno di stesura del manoscritto, riguardo a che cosa aspettarsi da quelli che per noi sono diventati dei viaggi ordinari grazie ai moderni aerei? La scienza non lo sapeva ancora, esattamente come non sapeva cosa aspettarsi da Plutone, che H. P. Lovecraft trasformò poi in Yuggoth.
Alcuni di questi aviatori, come accennavo prima, erano impazziti e farneticavano qualcosa riguardo a “mostri”; altri erano spariti senza lasciare traccia; altri invece ritrovati senza testa e “tutti coperti di grasso” come accertato dalle inchieste giornalistiche.
Interessante è notare come l’aviatore-Doyle abbia presentato i cieli come una specie di giungla: il richiamo è ovviamente a un luogo inesplorato, sconosciuto, possibilmente pieno di minacce. E sappiamo dalle premesse che in certe casi si sono tradotte in morti assurde, come se qualcuno fosse azzannato da una strana creatura – proprio – nella giungla.
Giungla che, ora che ci penso, era già stata astrattamente individuata – o quella o, comunque, un luogo esotico – con il richiamo all’organismo “simile alla malaria”.
Gli spunti ci sono. Vediamo come sono tradotti.
L'orrore ad alta quota
“Nella loro struttura non c’era più solidità che nella spuma galleggiante di un’onda infranta.”
Giunto finalmente ad alta quota, lo sventurato aviatore si imbatte in una “flotta” di esseri eterei, impalpabili. Alcuni simili a delle meduse, altri a dei serpenti marini:
“C’era in esse una delicatezza di struttura e di colorazione che mi ricordarono il più fine vetro di Venezia. Pallide ombreggiature di rosa e di verde erano i colori dominanti, ma tutte possedevano un’incantevole iridescenza, là dove il sole brillava attraverso il loro delicato profilo.”
La prima reazione al cospetto del mare ignoto che si para davanti all’autore del taccuino è meravigliata. In parte ci disorienta, perché dalle tragedie narrate precedentemente ci aspettavamo qualcosa di ben peggiore. Invece non si tratta di una giungla, ma di un immenso e incantato mare pieno di esseri semplici come le più elementari – e inoffensive – creature marine.
Tutto dura poco, ed è correlato, come credo che Doyle abbia voluto intendere, a un rapporto direttamente proporzionale tra complessità organica e pericolosità. Mi spiego meglio: nel mare aperto avremmo più timore di incontrare una medusa gigante oppure uno squalo? Dei gamberetti oppure un barracuda?
Si avvicina, infatti, a grandi passi verso l’aeroplano un altro essere, ben più ostile dei precedenti e dalla struttura organica più complessa:
“[…] erano presenti tracce maggiori di organizzazione fisica, in particolare due enormi, oscuri avvallamenti circolari su ciascun fianco, che potevano essere occhi, e tra questi una protuberanza bianca perfettamente solida, ricurva e crudele come il becco di un avvoltoio.”
La chiave è la natura
L’essere, nelle sue intenzioni ostili, non sembra però essere animato da una malvagità intrinseca. Per come è descritto – e, soprattutto, per via dei richiami precedenti alla giungla – sembra più uno sconosciuto predatore: è possibile che un giaguaro sia di per sé maligno? Anche se ci insegue per ucciderci in una giungla desolata e minacciosa, probabilmente lo fa per sfamarsi o per difendere il suo territorio: è nientemeno che la sua natura.
Questo, quantomeno, è quello che penso io e che credo sia il concetto che abbia voluto far passare Doyle. Anche se al pilota, ora preda del panico più assoluto, non sembra affatto così. Dopo aver descritto con una chiarezza estrema le fattezze e i movimenti dell’essere – un rigore scientifico di lovecraftiana memoria! – infatti ci dice l’esatto opposto.
“Sapevo che ce l’aveva con me. Ogni vampata violacea del suo corpo schifoso me lo diceva. Gli occhi vuoti, sporgenti, mi fissavano freddi e crudeli nel loro viscido odio.”
Doyle, orrore ad alta quota e orrore cosmico
Ora, la premessa di trama è che il nostro sventurato aviatore sia riuscito in qualche modo a scappare al primo incontro con gli esseri. Il disastro aereo infatti è solo conseguente a una seconda spedizione, della quale ci dà conto alla fine del quaderno: determinato a portare sulla terra ferma delle prove, incontrerà invece una “morte orribile”.
Io adoro “Orrore ad alta quota” perché è di una modernità sorprendente. A un oceano di distanza, Doyle aveva iniziato a tracciare autonomamente quel percorso che porterà poi Lovecraft – senza contare i lavori di Hodgson come “La casa sull’abisso” – a delineare compiutamente la teoria dell’orrore cosmico pochi anni dopo.
Gli elementi che avvicinano questo lavoro di Doyle a H. P. L. ci sono tutti. In primis la tecnica narrativa del manoscritto ritrovato, qui sostanziata in: zero dialoghi, tanto lavoro di ambientazione e descrizioni scientificamente minuziose, accurate e verosimili.
Poi la natura dell’orrore: c’è qualcosa che noi poveri umani ancora non sappiamo e non possiamo comprendere senza perdere un briciolo della nostra sanità mentale. Analogamente a quella “placida isola” di ignoranza citata ne “Il richiamo di Cthulhu”, è soltanto la nostra scarsa capacità tecnologica – qui siamo nel 1913 – che ci preserva dai pericoli di una “giungla esterna” terribile.
Anche distaccandoci momentaneamente dalla concezione Lovecraftiana di “weird fiction” e ponendoci nella prospettiva del conflitto tra mondi tanto cara a Mark Fisher, “Orrore ad alta quota” passa anche questo esame: l’idea narrativa che aveva Doyle in relazione a questo lavoro è del tutto assimilabile a questo concetto.
Sì, perché il nostro mondo è “separato grazie a un tenue e precario margine di sicurezza” dal pericolo imprevisto che aleggia sulle nostre teste.
Cosa accadrà quando l’umanità inizierà a scoprire questa giungla? Che sia essa lo strato più esterno dell’atmosfera o la perduta civiltà degli Antichi nel continente antartico non fa differenza. La verità che ci vogliono far passare Doyle in questo racconto e Lovecraft in tutta la sua produzione è una sola: l’orrore è sempre in agguato e pronto ad annientarci.
Non per antagonismo, non per chissà quale motivazione pseudo-religiosa: è semplicemente natura.
La legge della giungla.
Già prima di leggere “Orrore ad altra quota” e le altre storie soprannaturali adoravo Conan Doyle; se possibile adesso mi piace ancora di più. Prova a scoprire questo lato del padre di Holmes: non te ne pentirai!
Bibliografia:
- A caccia di spettri, Arthur Conan Doyle, a cura di Malcolm Skey, Edizioni Theoria, 1993.
- Uno studio in rosso, Arthur Conan Doyle, Feltrinelli Editore, 2015.