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Orrore su carta: immaginazione e soprannaturale

Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati

Nello scorso articolo – anche se mi pare più sensato non ammettere una vera e propria divisione ma più che altro la continuazione di uno stesso argomento – ho provato a dare un perché all’orrore su carta.

Tutto questo senza pretesa di avere in mano una chissà quale conoscenza segreta e indicibile da rivelare con il contagocce, anzi. Tieni presente che tutto quello che scrivo vuole essere solo uno scambio di opinioni amichevoli.

Credo sia proprio questo il bello della scrittura: non importa l’epoca, non importa il luogo. Conta solo quello che abbiamo tra le mani. Che sia stato scritto centinaia di anni fa o solo lo scorso inverno è totalmente irrilevante. Uno scambio continuo e ininterrotto di idee e stimoli, come avere un migliaio di corrispondenti senza aver mai proferito con loro parola: una specie di anticipazione dei social network ma assolutamente più virtuosa.

Pardon, mi accorgo di stare divagando.

Il mio "come"

Avevo detto che ti avrei cercato di fornire anche un “come”. Prima abbiamo introdotto una serie di concetti che devono per forza rimanere sullo sfondo di questa nostra corrispondenza: sono l’astratto, le premesse, di un discorso pratico. E il modo nel quale strutturerò questo spazio di incontro tra me e te sarà senz’altro pratico.

Dunque, altro giro, altra domanda fondamentale: come si scrive la paura su carta? Come un’idea terrificante può essere attuata nel modo più efficace possibile attraverso le varie combinazioni di parole che il nostro idioma può offrirci? E soprattutto, con quale contenuto deve rapportarsi in via principale per ottenere il suo scopo?

Parto subito rispondendo – se mai ti sarai figurato questa domanda – che secondo me sì, esiste un modo corretto di scrivere storie dell’orrore. C’è un modo giusto – più efficace – attraverso il quale la paura può attraversare quelle pagine e quelle righe e giungere a te, seduto sul tuo letto in una giornata uggiosa a leggere storie di bizzarre vendette dall’oltretomba.

Tutto sta nelle parole.

Una breve distinzione

L’elemento da cui intendo cominciare per gettare le basi del discorso, e ti prego di pazientare se per te sono concetti triti e ritriti, è il come l’emozione paura possa ripartirsi in varie sensazioni: parlo, ovviamente, della distinzione che alcuni fanno riguardo alla dicotomia terrore-orrore.

Terróre s. m. [dal lat. terror -oris, der. di terrere «atterrire»]. – 1. a. Sentimento e stato psichico di forte paura o di vivo sgomento, in genere più intenso e di maggiore durata che lo spavento […] basati su fatti, situazioni fortemente impressionanti; […]

Orróre s. m. [dal lat. Horror oris, der. di horrere (v. orrido)]. – 1. a. Impressione violenta di ribrezzo, di repulsione, di spavento, provocata nell’animo da cose, avvenimenti, oggetti, persone che siano in sé brutti, crudeli, ripugnanti e sim. […] basati sull’orrido e sul macabro (v. horror). […]

(tutte e due le voci sono tratte da Treccani, Vocabolario online)

Questa tradizionale bipartizione ha molto uso in psicologia e, ovviamente, per quello che ci confà maggiormente, in letteratura. Le parole possono suscitare terrore o orrore. Entrerei subito nel vivo confrontandomi con quello che a tal proposito ci dice Stephen King in Danse Macabre.

Secondo King, “l’emozione più fine” è il terrore, perché nasce “da un diffuso senso di spiazzamento; quando le cose sembrano sul punto di sfasciarsi”; per quanto concerne invece l’orrore, questo sarebbe caratterizzato principalmente dall’invito a “una reazione fisica” perché ci mostra “qualcosa che è fisicamente sbagliato.”

La differenza è nel rapporto spavento-tempo

Un esempio.

Ci siamo, i segnali che il velo sottile tra la realtà e un mondo assurdo e incomprensibile si sta per squarciare ormai sono lampanti. Quei passi salgono per le scale e tutto intorno alla casa e a i suoi rumori – non si sa se sono naturali o no, perché tutte le case più antiche scricchiolano in modi sinistri, lo sai bene – infuria una tempesta: l’attesa pietrificata è terrorizzante.

Ciò che viene svelato dalle tenebre più immonde e profonde al di là di quel portale è la forma, appena accennata sotto il sudario, della nostra amata, morta per un’infelice sepoltura prematura: orrore.

Ma King si spinge oltre e giunge a declinare un terzo livello: quello della repulsione. Questa, a detta dell’autore, sarebbe solo un “frizzante riflesso” della paura, scatenato quasi esclusivamente a livello fisico.

Malgrado tutto, King sostiene poi di non avere un metodo preferito per la redazione della sue storie: qualora non riesca a terrorizzare, prova a generare orrore, e, qualora anche questo tentativo vada a vuoto, punta sulla repulsione. Accolgo con piacere l’invito di King a non prendere le definizioni come oro colato: limitano in modo troppo settoriale una materia che è in continua evoluzione.

La differenza per me risiede nel rapporto tra spavento – quindi psiche – e tempo: più a lungo un elemento pauroso resta impresso dopo il suo manifestarsi, più la scala emotiva ovviamente tende verso il terrore. Sono gli effetti tipici dell’ambientazione e delle sensazioni: cupe brughiere, “boschi che sembrano nuvole”, case squallide, l’idea di essere seguito in ogni dove da qualcosa di invisibile e furtivo.

Più si va verso un lasso di tempo ridotto e più, invece, si scade nel pulp: grotteschi laghi si sangue, torture infinite, morti orrende, assimilabili ai veri e propri jumpscares tanto abusati dai più recenti film horror.

Ma allora, tutto quello che sta in mezzo?

La cosa di davvero terrificante qui è l'inglese.

Il ruolo dell'immaginazione

Qui davvero metto in pratica l’invito di King e, quindi, ti indirizzo in un altro senso più pratico e immediato: non mi interessa scrivere trattati infiniti su cose che hanno poca rilevanza nella prassi, per quello basta intrattenersi con un qualunque saggio di metafisica.

Quello che conta davvero è un altro elemento: quale di queste tre definizioni effimere che stingono l’una nell’altra – è particolarmente evidente per le prime due – è quella più idonea a stimolare la paura tra le pagine di un libro? Quale paura è di qualità superiore in relazione alla premessa sulla sua capacità evolutiva come definita nello scorso articolo sulla tecnica? E da cosa è caratterizzata?

Il legame tra paura e ignoto è stato sviscerato nell’articolo precedente, al quale rimando.

Adesso non resta che indagare più a fondo quello che invece è il legame tra ignoto e immaginazione. Dico subito che secondo me, stimolare l’immaginazione stando a contatto con l’ignoto che pende nella narrazione sia nella forma della trama che, anche se non di più, nella forma del non-descritto, ha maggiore stimolo evolutivo rispetto a un opera che tratti di paura ma svolti poi nella descrizione realistica di una vicenda o all’esercizio logico di individuare il colpevole di un terribile delitto prima che ti venga presentato dall’investigatore.

Con stimolo evolutivo intendo che chi si immagina quanto non è descritto ma solo accennato, compie uno sforzo psichico maggiore rispetto a chi ha la “pappa pronta” ma, soprattutto, io e te, immaginandoci l’elemento pauroso, immaginiamo quello che per noi fa più paura. Che fattezze ha quello spettro – per tornare a prima – appena accennato sotto il sudario?

Il soprannaturale come contenuto

Si può stimolare l’immaginazione in un racconto dell’orrore essenzialmente in due modi. Uno ha a che fare con il metodo di scrittura – ci torniamo tra pochissimo – che consiste nel suggerire l’elemento orrifico; l’altro invece sul contenuto, ossia sulla rappresentazione di situazioni al di là del reale, mai viste nella vita di tutti i giorni e, quindi, inconoscibili.

Parlo del soprannaturale – o di ciò che sta oltre la natura – e ritengo che il contenuto di una buona storia dell’orrore debba essere principalmente oltre l’esperienza ordinaria come la conosciamo: deve rappresentare una sospensione delle nostre sicurezze e dei nostri postulati. Ci deve spiazzare, metterci a contatto con qualcosa di totalmente inaspettato, che possiamo solo immaginare.

Soprannaturale (meno com. sovrannaturale) agg. [comp. di sopra- (o sovra-) e naturale]. – Nel linguaggio com., che supera il corso ordinario della natura (sinon. in questo caso di preternaturale); o che trascende i limiti dell’esperienza e della conoscenza umana (equivalente quindi a trascendente): cose, fatti, fenomeni s.; forza s.; potenza s.; in usi fig. e iperb., fuori dall’ordinario, prodigioso: essere dotato di una forza s.; avere una bontà soprannaturale. […]

(da Treccani, Vocabolario Online)

Rincaro la dose; per Francesco Orlando in Soprannaturale letterario: storia, logica e forme, il soprannaturale sarebbe da mettere in correlazione con la sospensione:

I temi soprannaturali richiedono, infatti, una qualche sospensione di incredulità in più, uno spazio ulteriore riconosciuto alla trasgressione fantastica.”

Di sospensione parla anche Lovecraft, ne L’orrore soprannaturale in letteratura:

Il vero racconto sovrannaturale possiede qualcosa di più del delitto misterioso, delle ossa insanguinate o di una apparizione avvolta in un lenzuolo che trascina rumorose catene secondo copione. Deve esservi presente una certa atmosfera di terrore inesplicabile e mozzafiato di forze estranee, sconosciute; e deve esserci un’allusione espressa con una gravità o un tono sinistro adeguati all’argomento, alla più terribile concezione del cervello umano: una maligna e peculiare sospensione o sconfitta di quelle immutabili leggi di Natura che costituiscono la nostra sola difesa contro gli assalti del caos e i demoni dello spazio insondabile.”

Soprannaturale e immaginazione

Soprannaturale – il “vero racconto sovrannaturale”, The true weird tale”, usando l’inglese dalla citazione di Lovecraft – come sospensione o interruzione, dunque.

E qui, caro amico, entra in gioco la tecnica narrativa, unico modo per stimolare quell’immaginazione che costituisce quello stimolo evolutivo proprio della reazione paurosa agli abissi dell’ignoto.

Il soprannaturale, di per sé inesplicabile, va legato a doppia mandata dalla tecnica più immaginativa possibile: in un’atmosfera terrorizzante, l’orrifico deve essere appena accennato, o suggerito, o comunque implicato nelle sue manifestazioni ulteriori.

Ripeto: spaventa di più la descrizione accurata di un mostro terrificante con miriadi di tentacoli e un paio di occhi rossi in mezzo a una rozza parodia di un volto umano, oppure un suggerimento che ci consenta di avercelo davanti come il nostro cervello – a contatto con l’ignoto – lo immagina e lo affronta con gli occhi del protagonista?

Ebbene, nel secondo caso ci si parerà davanti la situazione peggiore possibile, quella che temiamo di più: l’oggetto delle nostre paure più profonde. È per questo che, a differenza di HPL che voleva principalmente narrare di fenomeni e, su questa linea, di Hodgson ne La casa sull’abisso, secondo me il protagonista deve per forza riflettersi nell’orrore davanti a lui per completare il cerchio. Ma ne riparliamo poi.

Lovecraft, ad esempio, nel suo approccio all’orrore negli scritti critici – ma anche in certi racconti come Le montagne della follia o il L’ombra calata dal tempo – è assolutamente scientifico: lo disseziona solo per dargli un fondamento e mettere a nudo la reale poca conoscenza che l’uomo ha del cosmo – ti ricorda qualcosa l’incipit de Il richiamo di Cthulhu? –, ultimo baluardo prima della follia del protagonista. Contrapponendosi, peraltro, all’altro punto di vista, cioè quello antagonistico dei culti blasfemi o di altre razze infinitamente più intelligenti di noi che hanno accettato dal punto di vista religioso l’insondabilità degli abissi dell’esistenza. Solo l’accettazione fantastica può salvare la mente dalla follia, altrimenti la contraddizione è troppo grande per essere sopportata.

Quindi terrore, orrore, e non già repulsione, hanno maggiori potenzialità evolutive, stimolando la nostra mente a contatto con l’ignoto: ci spingono a guardare quello che la scienza moderna di Lovecraft ancora non ha rivelato e reso così innocente/inoffensivo – posto che conoscere è domare – e a rabbrividire come facevano i nostri antenati quando pensavano che le tempeste fossero segni divini.

Vedere in opera una sospensione delle leggi naturali ci spinge a indagarla perché è nuova: la affrontiamo, cresciamo con i protagonisti delle storie.

Immaginiamo di più e quindi cresciamo di più: anche leggendo lo sforzo è maggiore che essere guidati passo passo.

Perché le altalene abbandonate sono così tetre? Perché suggeriscono una presenza.

Il mio "come": il ruolo decisivo del suggerimento

Quindi, al di là del concetto, molto lo fa la tecnica: un orrore suggerito – qui si apprezza il soprannaturale, perché come puoi immaginare/descrivere qualcosa che nessuno mai ha visto? – è più efficace di un orrore che ti guida passo passo come sopra e, al più, suscita repulsione con la descrizione. C’è da dire che molto sta all’autore. Molte scene che nella vita reale chiunque può sperimentare possono essere descritte vagamente ma non è la stessa cosa: sappiamo che quel maniaco è umano, e quindi ha quattro arti e una testa. E magari una bella mannaia.

Ma se a inseguirci è un segugio cosmico come quelli appena accennati da Long ne I segugi di Tindalos?

L’elemento sovrannaturale dovrebbe essere abilmente evocato piuttosto che descritto apertamente […]”

(HPL, da una lettera a H. S. Farnese, 22 settembre 1932, in Selected Letters, Vol. IV, n.566, da me qui citata da Teoria dell’orrore a cura di G. De Turris.)

Proprio da due corrispondenti/emulatori del Maestro di Providence, che pure dovrebbero avere ben chiara la lezione del loro amico/maestro, traggo due esempi ad hoc. Qui preciso che un argomento del genere sarà senz’altro trattato a parte.

Pensiamo a Bloch, che nel suo filone Lovecraftiano annovera dei lavori come Quaderno trovato in una casa deserta e mettiamolo in contrapposizione con lo stile didascalico di Derleth, ad esempio ne L’abitatore delle tenebre.

Nel primo caso il titolo è già un suggerimento della fine terribile che attende il bambino autore di quel quadernetto, ma è la tecnica narrativa a rendere palese – attraverso gli occhi, adattissimi allo scopo, di un fanciullo – l’orrore cosmico mai totalmente descritto che infesta le cupe colline dove il nostro protagonista ha la sfortuna di abitare. Nel secondo caso invece, con la smania di spiegare tutto in maniera dettagliata ricorrendo a suggerimenti troppo evidenti – insomma, sappiamo fin da subito che cosa si nasconda in quella foresta e quale è la sorte di chiunque vi si avventuri – e a una sterminata elencazione di orrori – oltre alle bestemmie, di cui parleremo, verso la concezione del cosmo del suo maestro – Derleth combina un mezzo pasticcio.

Se forse è più chiaro, si pensi a – davvero non mi è piaciuto –  La casa d’inferno di Matheson, che dal mio punto di vista cito come esempio negativo: ci ho trovato praticamente solo repulsione Kinghiana, elenchi interminabili, una casa che sappiamo già essere infestata ed esageratamente mortale – su questo vedi S. Jackson, L’incubo di Hill House come esempio virtuoso – e gore, per dirla come i fan del cinema. Tanto gore.

L’immaginazione è tutto in un buon racconto di paura: più efficacemente immaginiamo l’ignoto, più avremo paura. Domandola, cresciamo.

Però molto, oltre all’autore, sta anche a noi lettori. Per questo rimando al prossimo articolo.

Se questo secondo capitolo riguardo alle mie opinioni sull’orrore ti è piaciuto, sentiti libero di condividerlo e di farmelo sapere. Per continuare il discorso ci vediamo al prossimo articolo su Teorie e Tecniche, che riguarderà più da vicino il lettore.

Tutto quello che ho citato lo puoi trovare qui:

  • Danse Macabre, Stephen King, trad. Edoardo Nesi, Sperling&Kupfer, 2019.
  • Il soprannaturale letterario: storia, logiche e forme, Francesco Orlando, Einaudi editore, 2017.
  • Teoria dell’orrore, tutti gli scritti critici, Howard Phillips Lovecraft, a cura di G, De Turris, Bietti, 2019.