Vuoi parlare della paura? Eccoci qui. Questo è l’inizio, una vera e propria introduzione a tutto quello che, se vorrai, sarà qui a tua disposizione. No, non fare quella faccia: come in ogni opera che si rispetti sappiamo che, prima di tutto, volenti o nolenti, viene una breve introduzione.
Eh, già. Che bello, vero?
Se proprio devo essere onesto con te, cosa che mi propongo di fare senza condizioni, io ho sempre detestato le introduzioni. Da quando ho iniziato a leggere con più frequenza certi titoli, escludendo a ragione i vari Piccoli Brividi, le ho sempre sistematicamente saltate.
Hop, Hop! Via, Adieu, con buona pace di chi si è impegnato a scriverle.
Perché, mi chiedevo, avrei dovuto perdere tutto quel tempo a leggere una cosa così inutile e pretenziosa quando, a poche pagine di distanza, la storia che avevo scelto con cura fremeva per essere letta?
Solo crescendo ho imparato ad apprezzare quella decina di pagine che invece chiamavano a gran voce la mia attenzione; che si trattasse di saggi introduttivi di critici o veri e propri pezzi teorici e/o autobiografici dell’autore – non credo valga davvero la pena di ribadire che la mia preferenza assoluta ricada proprio su questi – mi sono accorto dall’oggi al domani che non potevo davvero ignorarli. Tutto questo perché spiegano. Ti spiegano chi è l’autore e, certe volte, soprattutto per quanto riguarda gli spunti riconducibili proprio a quest’ultimo, riescono a gettare luce su aspetti che non sono facilmente intuibili in prima battuta dalla narrazione vera e propria
Una mia riflessione
Che mi ricordi, quindi, prima è venuto il perché. Perché leggere una raccolta di racconti dell’orrore? Perché apprezzare i brividi che ti scendono lungo la schiena non appena lo sventurato protagonista incontra qualcosa che non avrebbe mai voluto, e dovuto, vedere?
Poi, dopo qualche anno, cioè quando ho iniziato a interrogarmi su quello che per me era un automatismo collaudato e vecchio di lustri – parlo, ovviamente, dello scrivere storie dell’orrore –, è venuto il come.
Come i miei autori preferiti riescono a scrivere efficacemente? Come riescono a fare in modo che tu, seduto sul tuo divano durante una giornata ventosa, confonda l’ululare del vento con quello di uno spettro? Quindi, mio buon amico, non me la prenderò – quantomeno, non troppo – se deciderai di saltare le mie personalissime riflessioni sul mondo della paura: se pretendessi il tuo tempo, che cosa dovrebbero dire di me Stephen King e compagnia cantante?
Però se vorrai restare ho qualcosa da dirti.
Questo è il mio personalissimo e, per questo certamente opinabile, perché. Per il come c’è da aspettare ancora un pochino.
Un paio di definizioni
Perché, dunque, ci piace così tanto leggere le storie dell’orrore? Perché ci piace sentire il suono della carta che fruscia e sentire sotto il nostro polpastrello la trama di una pagina che gira mentre assaporiamo quei caratteri vergati con l’inchiostro che ci parlano della paura?
Io dal canto mio non ne ho potuto mai fare a meno, fin dalla più tenera età. Cioè da quando ho adocchiato quelle copertine accattivanti nella libreria di mia madre o quelle sgargianti promesse di terrore alle bancarelle, che ti giuravano che avresti provato dei Piccoli e, talvolta, dei Super Brividi.
Ci sarà un momento – prevalentemente autobiografico, devo ammetterlo – nel quale il bambino che c’è in me ti racconterà bene il rapporto che ha avuto con la paura letta e scritta ma dovrai, se ne avrai voglia, pazientare.
Adesso no. No, non è proprio il momento, perché voglio condividere con te uno spunto.
“Parliamo della paura. Io e te.” come recita l’introduzione di A volte ritornano di Stephen King, una delle mie raccolte di racconti preferite in assoluto. E King è proprio il genere di autore che ti prende per mano, ti fa ambientare e poi ad un certo punto di quella Danse Macabre che scaturisce dalla sua penna, ti sussurra all’orecchio qualcosa di terrificante.
Quindi, se ti accontenterai della mia compagnia e non di quella di un vero Maestro dell’horror, vorrei iniziare le mie personalissime riflessioni con l’ausilio dell’argomento letterale – i giuristi, categoria della quale faccio parte, hanno studiato mille e mila paroloni: argomento letterale sembra forse fin amichevole – e, partire dal vocabolo “paura”.
Paura s. f. [rifacimento, col suff. -ura, del lat. Pavor -oris «timore, paura», der. di pavere «aver paura»]. – 1. a. Stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso: più o meno intenso secondo le persone e le circostanze, assume il carattere di un turbamento forte e improvviso, che si manifesta anche con reazioni fisiche, quando il pericolo si presenti inaspettato, colga di sorpresa o comunque appaia imminente; b. Con sign. attenuato, stato d’animo abituale, o condizione costante, di timore e di apprensione […]; c. […].
(da Treccani, Vocabolario online)
Data per buona questa definizione dovrò, dunque, partire da una delle mie citazioni preferite che, oltre a provenire da un vero Maestro dell’orrore, è anche utilissima per quello che seguirà:
“Il più antico e intenso sentimento umano è la paura, e il genere di paura più antico e potente è quello dell’ignoto.” (Howard Phillips Lovecraft, L’orrore soprannaturale in letteratura)
Una possibile spiegazione
La prima definizione sopra riportata e universalmente accettata correla lo stato di paura a qualcosa che, anche inconsciamente, percepiamo come potenzialmente pericoloso. Questo accade nella vita reale, ovvio, ma tra le pagine di un libro?
Il meccanismo che è alla base della paura letteraria è in parte, secondo me, un po’ diverso da quello che proviamo nella vita vera, ad esempio quando siamo in attesa di sostenere un esame importante e abbiamo paura di un fallimento. In questi ultimi casi il pericolo è reale, attuale, concreto: anche se hai studiato come fai a non essere sicuro che il professore sia bendisposto? O che quell’assistente sia onesto con se stesso e, soprattutto, con te?
Intanto inizio con il riportare che la paura è principalmente un meccanismo, se non il meccanismo, che ha permesso all’umanità di evolvere, sopravvivendo a certe minacce – naturali e non – e certi pericoli. Perché ci sono certe paure cosiddette ataviche? Perché guardiamo con diffidenza, ad esempio, quegli animali o quegli insetti che si muovono con movimenti repentini come ragni e serpenti?
Semplice: da qualche parte addietro nel tempo e nello spazio, i nostri antenati per primi hanno sperimentato gli effetti mortali di certi animali. Ovviamente questo è solo un esempio, e come tale non può essere esaustivo. Qualsiasi stimolo fuori dalla norma viene catalogato dal nostro cervello – non sono certo un biologo dell’evoluzione, non pretendere da me i dettagli – e archiviato. Poi, passato da padre in figlio. Da tradizione a modernità.
Questo atavismo è quello che ha consentito sia all’umanità di evolvere e che adesso consente a noi di percepire come immediatamente pericolosa, anche se poi non risulterà come tale alla prova dei fatti, la traversata in un vicolo buio e solitario in piena notte. Oltre all’atavismo, ciò che noi stessi come individui del genere umano abbiamo appreso nel corso della vita è un nuovo stimolo alla paura e quindi a quella reazione di mordi, fuggi o congelati, che risiede nel nostro istinto animale e che chi studia questi fenomeni a livello neuroscientifico cataloga come stimolo adattivo.
Adattarsi, rispondere, crescere. Trovare nuovi modi – perché no – per provare meno paura, aumentando il nostro campo di conoscenze e sicurezze. A mio modo di vedere, la stessa società primitiva e ovviamente quella moderna, hanno un’unica raison d’être: ovviare alla paura e ai rischi di una vita allo stato di natura. Dove nessuno potrebbe chiamare i soccorsi se stiamo male o sentirci se urliamo perché qualcosa è calato da un albero proprio dietro di noi.
È ordine nel caos. Ordine vuol dire sicurezza.
La paura e l'illuminista
Bene, dando per buona questa – spero vorrai non essere troppo severo con me – spiegazione, non resta che parlare di quello che succede sulla carta.
Dove non c’è un vicolo buio davanti a te ma è solo nella tua mente. Dove non c’è un vero pericolo nell’attraversare qualcosa che materialmente non stai sperimentando.
Credo sia il momento di tirare in ballo l’ignoto al quale accennava Lovecraft. L’ignoto è legato a doppia mandata all’emozione della paura: cosa ci fa più paura, istintivamente? Qualcosa che non conosciamo ancora oppure qualcosa che ci aspettiamo e a cui sappiamo, magari, rispondere?
L’ignoto scatena la paura più potente perché trattiene l’inaspettato, l’imprevedibile, il non-conosciuto.
È solo a contatto con l’ignoto che l’umanità ha potuto evolversi attraverso la spinta della paura: man mano che l’uomo è andato avanti nel conoscere i fenomeni, almeno nella vita reale ha smesso di averne paura. Un illuminista come Voltaire poteva avere davvero paura delle streghe come Martin Delrio, una volta certo della loro inesistenza? Credo proprio di no.
“Le streghe hanno smesso di esistere quando abbiamo smesso di bruciarle.” (Voltaire, Lettere Filosofiche)
Perché se le streghe non esistono non possono farci del male. Non sono un pericolo per noi. Noi uomini moderni sappiamo che le tempeste non sono segnali della collera divina per cui, se adottiamo le dovute precauzioni a noi tramandate dalla scienza, non dobbiamo avere paura che Dio ci spazzerà via.
Ignoto richiama la curiosità: tensione verso l’esplorazione e il superamento dei limiti atavici della paura. Qui, davvero, entra in gioco più da vicino la paura su carta.
Se questa carta non può farci male – a meno che non siano le pagine dell’aborrito Necronomicon – la sensazione principale che ne avremo non sarà quella di paura-pericolo ma di curiosità-paura.
Come l’uomo da sempre ha posseduto conoscenza per combattere la paura, noi possediamo le rivelazioni che si susseguono tra quelle pagine. Le facciamo nostre.
La paura della quale andremo discorrendo, pertanto è un riflesso della curiosità. Vogliamo provare paura per soddisfare la nostra sete di curiosità: vogliamo davvero trovarci in quel vicolo buio e patire assieme al protagonista pericoli che per noi, al momento, non esistono e probabilmente non esisteranno mai.
Quando prendiamo una boccata d’aria dopo l’apnea di pagine e pagine passate a tribolare con i nostri personaggi preferiti, allora ci sentiamo potenti. Soddisfatti. Quella creatura non mi ha fatto niente, perché semplicemente non esiste.
Ci siamo confrontati con l’ignoto e ne siamo usciti vincitori, cioè con un bagaglio nuovo di conoscenze ed esperienze sollecitate dalla forza dell’immaginazione – tieni bene a mente questo termine, perché sarà l’oggetto principale del come e quindi, del prossimo articolo teorico.
Paura è niente altro che evoluzione e i racconti del terrore non sono così diversi dal buio di una stradina di periferia: a mio parere leggiamo per dimostrare a noi stessi che siamo in grado di domare quella paura, confrontandoci con gli orrori su carta – o su film per chi preferisce uno stimolo visivo.
Siamo a contatto con l’ignoto quindi cresciamo, una volta tornati indietro. Cosa che il nostro povero antenato che ha incontrato una bestia feroce, pur avendone paura, molto spesso non ha potuto fare.
Quindi, può Voltaire avere paura delle streghe?
Alla luce di quello che abbiamo detto: può Voltaire aver paura delle streghe?
No, a meno che nel tempo libero, per puro hobby, non decida di leggere qualcosa sugli orrendi sabba della notte di Valpurga e dei loro innominabili sacrifici.
Il nostro illuminista si abbandonerebbe dunque alla sensazione di provare paura, per poi risvegliarsi come rinato – in uno stato assimilabile alla vera e propria catarsi –, consapevole di aver passato solo un incubo ad occhi aperti. Ha conosciuto quegli eventi e non gli hanno fatto un male fisico, ma solamente proiettato un pericolo astratto nella mente del quale l’ignoto suggerito attraverso un’abile narrazione che capisca come destare la curiosità del lettore, costituisce il sortilegio principale.
Si è evoluto, a contatto con il vasto reame dello sconosciuto.
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- Se ti interessa: Voltaire, Lettere filosofiche, Rusconi libri, 2016.
- Puoi leggere L’orrore soprannaturale in letteratura in H.P. Lovecraft, Teoria dell’orrore, a cura di G. De Turris, Edizioni Bietti, 2011.
- L’introduzione di A volte ritornano è tratta da S. King, A volte ritornano, Bompiani, 1992.