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Poe e il lutto: la morte dell’amata

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Ho scelto di dedicare questo primo articolo a E. A. Poe non per chissà quali esigenze di argomentazione – spero di lasciarle da parte con gli articoli teorici – ma per un motivo molto più venale.

Poe è stato il primissimo autore serio che abbia mai letto.

Sì, ho passato l’estate dei miei dieci anni – faccio gli anni i primi di settembre, ho sempre vissuto l’estate praticamente solo in attesa del mio compleanno – sotto l’ombrellone di qualche spiaggia di Sestri Levante a leggere un volume che ancora oggi conservo con gelosia.

Sto parlando di Tutti i racconti del mistero dell’incubo e del terrore di Edgar Allan Poe, in uno di quei volumi de i Grandi Tascabili Economici, Newton Compton.

Parto subito con il dire che adoro questo volume. Sia per il legame sentimentale che mi ci unisce – accidenti, stiamo parlando del mio primo vero e proprio amore letterario! –, sia perché contiene praticamente tutta la prosa che l’autore di Boston abbia mai scritto.

Non solo: visto che l’occhio vuole la sua parte, questa edizione è arricchita con delle illustrazioni fenomenali miniate da Alberto Martini; da bambino, ancora prima di saper leggere – figuriamoci capire – quelle pagine, mi fermavo minuti interi ad osservare quei disegni in bianco e nero. 

Così macabri e inquietanti. Così suggestivi! La mia preferita in assoluto era quella che spuntava tra le pagine di Hop-frog: tutti quei corpi appesi: come sarebbero mai potuti essere finiti fin lassù? E perché erano poco più che scheletri?

Menzione d’onore per l’illustrazione a Metzengerstein, spero di averlo scritto giusto, e per I delitti della Rue Morgue: questo in particolare – quella sagoma nera così minacciosa e aliena, gli occhi di quella donna riversa per terra!

poe rue morgue martini
Prova a dirmi che non è inquietante. Alberto Martini, illustrazione per I Delitti della Rue Morgue di E.A. Poe.

Il tema fondamentale di Poe

Basta ricordi, iniziamo ad analizzare la ripartizione dei racconti e la loro rubrica come impostati dai curatori di questa memorabile raccolta.

Abbiamo racconti sulla vendetta e sull’assassinio, tra i quali Il gatto nero è sicuramente il più famoso; quelli relativi all’Immaginario, al Terrore, al Mistero – nei quali il buon Auguste Dupin, padre di Sherlock Holmes, fornisce dimostrazione delle sue incredibili abilità deduttive – e, infine, il raggruppamento rubricato La morte.

Parto subito con il precisare che la morte, come tematica fondamentale di Poe, non può essere circoscritta solamente a questi racconti; è piuttosto la lente attraverso il quale l’autore preferisce che noi lettori guardiamo le sue opere. Le permea, le circonda, anche quando non è l’elemento fondamentale.

Esempio banalissimo: ne Il pozzo e il pendolo, malgrado il finale lieto, non si può non sentire per tutto il tempo il fiato della morte sul collo. Quel pozzo trasuda morte. I suoi incredibili macchinari promettono la morte.

In tutti gli altri casi, invece, la morte è la protagonista. Poe volteggia in punta di penna per descriverne il terrore e il rispetto reverenziale; sia per i racconti dotati di una maggior componente immaginifica come La maschera della morte rossa, sia per quelli più marcatamente weird come La caduta della casa degli Usher la morte è l’unico filo conduttore che lega assieme la stragrande maggioranza della sua produzione.

Il racconto più adatto a descrivere quello che intendo è senza dubbio La sepoltura prematura, ma rimando il discorso ad altro tempo.

Tutto molto bello, ma non andiamo fuori tema

Bene, appurato il tema dominante della produzione di Poe, cioè la morte, vorrei concentrarmi su quella fetta della sua produzione che – sia nei racconti che nelle poesie – mette al centro il trapasso della donna amata.

Voglio approfondire un riflesso della morte: il lutto.

Parto subito con il dire che da ragazzino non avevo fatto troppo caso che molte di quelle storie riguardassero il tema della tragica dipartita della graziosa creatura amata dal narratore. Principalmente perché non erano assolutamente le mie storie preferite

Certo, mi sembravano noiose: un lettore quasi undicenne, come posso essere io invecchiato di circa quindici anni, viene attratto principalmente dai dettagli grotteschi de Il cuore rivelatore o dall’avvincente riflessione di Dupin ne Il mistero di Marie Roget.

Poi, dopo aver fatto le ossa grazie alle amorevoli cure di King e Lovecraft, ho avuto la fortuna di poter rileggere quello stesso volume e quelle stesse opere una seconda volta – e poi un’altra, un’altra e un’altra ancora, ma facciamo finta di niente – e di imbattermi in un piccolo tomo contenente buona parte delle poesie dell’autore di Boston.

Solo allora mi sono detto: accidenti, il nostro povero protagonista è davvero sempre condannato!

Perché è proprio così, caro amico o cara amica. Le fanciulle – le donne – di Poe muoiono.

La madre naturale quando lui aveva due anni, la madre adottiva nel 1829 e, soprattutto, Virginia, sua moglie, trapassata a causa della tisi nel 1847, solo due anni prima della morte dello stesso Poe.

Non c’è scampo.

La tomba di Virginia Clemm, coniugata Poe, morta nel 1847.

La domanda fondamentale: esiste un perché?

Un brevissimo cappello, prima di addentrarci nel regno della povera Lenore.

Cosa c’è dietro alla scelta di dedicare gran parte della propria produzione a un tema come questo? Parliamo di una scelta squisitamente poetica oppure c’è un qualcosa nella vita dell’autore che lo spinge a continuare su questo sentiero? Dove dobbiamo cercarne le radici?

In ossequio ai vertiginosi tassi di mortalità dell’America degli inizi dell’Ottocento, le donne che per Poe erano state più importanti, sono effettivamente morte tutte, anche se, nel caso di Virginia Clemm, sua cugina prima e moglie – 1835, teniamo a mente la data – poi, forse è più corretto parlare dell’ombra della malattia e, di riflesso, della morte che ne consegue.

In senso contrario, invece, sembra deporre lo stesso Poe, spiegando al pubblico la genesi artistica de Il corvo:

[…] la morte di una bella donna è, fuor di discussione, il più poetico tema in tutto il mondo.” da La filosofia della composizione, 1846, E.A. Poe.

Anticipo la mia risposta, che arricchirò con esempi.

Per me non può darsi una risposta univoca ma duplice: tutte e due le risposte, sia che si propenda verso la morte e la malattia delle sue amate nel mondo reale, o verso una scelta stilistica ispirata alla decandénce, non si è in errore. 

Tutte e due hanno ispirato Poe per la redazione queste opere e, il criterio da seguire per apprezzarlo, per me è quello cronologico.

Se pensiamo a Il corvo infatti, questo viene scritto nel 1845, prima della morte di Virginia – avvenuta il 30 gennaio 1847 –, ma quando la stessa è affetta dalla tisi. L’ombra della perdita viene in questo caso ancora prima della perdita.

Eleonora, però viene scritto e pubblicato circa un anno prima che Virginia mostrasse i primi sintomi della consunzione, nel 1841: ha a che fare certamente con l’amata di Poe nella vita reale – il protagonista dell’opera nonché voce narrante, è di fatto innamorato di sua cugina Eleonora – ma non con la sua malattia.

La cosa che mi preme evidenziare, però, è che in quest’opera, la Valle dell’erba dei mille colori sembra solo per un istante tingersi del nero della morte: in realtà il finale del racconto è assolutamente lieto.

Questo è indicativo del prevalere principalmente del tema poetico più che del vissuto: è un racconto, oltre che bellissimo secondo me, assolutamente ottimista.

Il corvo invece sembra proprio parlarci dell’ombra della morte e della malattia, proiettandola tra le strofe della poesia: non è la stessa ombra del corvo che incombe inesorabile sull’atterrito protagonista dal busto di Atena? Non gli getta in faccia la realtà cruda e fredda che dalla morte non si scappa “mai più”? Quell’uccello sorto dalla “notte plutonia” anticipa di due anni il lutto per la povera Virginia-Lenore.

Qui si apprezza l’influsso della malattia di Virginia: l’inesorabile tubercolosi sta per mietere un’altra vittima, e questo Poe lo sa.

Però il rapporto tra l’autore di Boston e il lutto per la perdita dell’amata non può esaurirsi solo citando Il corvo ed Eleonora: guardiamo al resto della prosa sul tema e, soprattutto alla poesia.

Eleonora e tutte le altre sventurate

Alberto Martini (1876-1954), 'Berenice', ''Attraverso gli albi e le cartelle'' by Vittorio Pica,  Vol. 3, 1904
Martini ci regala un altro incubo con la sua interpretazione di Lady Berenice.

Che dire di altre opere di prosa?

Caratteristica comune di Berenice, Ligeia e Morella, oltre che al nome della fanciulla che compone il titolo e alla sua morte – che condividono con Eleonora – è che, a mio parere, dimostrano uno sviluppo più versato alla scelta stilistica e poetica che predilige la morte dell’amata in ossequio al principio tematico citato ne La filosofia della composizione (v. supra) che ad un vero e proprio trauma per l’autore.

In primis, perché sono tutte e tre di molto antecedenti alla malattia di Virginia.

Ligeia, scritto nel 1838, è essenzialmente una storia di stregoneria. Il protagonista narrante ci suggerisce – abilmente, attraverso opportuni richiami agli “studi della metafisica”, agli occhi, che di tanto in tanto spaventano il narratore e che vengono descritti come essere più “profondi del pozzo di Democrito” –, che Lady Ligeia sia versata in un certo tipo di arti occulte.

Questa è una storia che riguarda un archetipo fondamentale della letteratura dell’orrore soprannaturale, ossia la vendetta dall’oltretomba; più in particolare si inserisce nella vendetta dello stregone dall’aldilà.

Però Ligeia muore di morte naturale, per cui è più corretto parlare di persecuzione dall’oltretomba: i lineamenti della fanciulla si riflettono in quelli della seconda moglie del protagonista – è qui il tormento: Ligeia vuol far capire al protagonista che è sempre con lui in un modo maligno, possessivo – morente anche lei per malattia. 

Nota la fine diametralmente opposta da Eleonora: in quest’ultima, l’amata defunta benedice il nuovo matrimonio del protagonista. Ligeia invece sembra patirci, e non poco.

Morella è l’antesignana di Ligeia, della quale costituisce il prototipo, giacché scritta nel 1835: anche Morella è una donna di una cultura infinita e anche lei è fonte di amore-inquietudine per il nostro protagonista:

[…] per ore e ore, indugiavo accanto a lei preso dalla musica della sua voce, finché, alla fine, la sua melodia era alterata dal terrore e un’ombra cadeva sulla mia anima, e impallidivo e rabbrividivo nell’intimo a quei suoni troppo sovrumani.”

L’amata muore, ma sembra reincarnarsi in sua figlia, come aveva alluso in una delle sue ultime parole prima di arrendersi alla malattia: “Sto morendo, eppure vivrò!”

Infine, Berenice, del quale la prima versione data alle stampe è datata 1835.

L’effetto di Berenice è diverso da quello dei due racconti sopracitati, ma si inserisce nello stesso filone, differenziandosi da Eleonora nonostante il sorprendente elemento comune dell’amore per la propria cugina.

Berenice tratta infatti degli aspetti più morbosi dell’essere umano – come gran parte della narrativa di Poe – che nel lutto, trovano terreno fertile per continuare a crescere e degenerare nella malattia psichica. 

Non c’è un elemento soprannaturale in senso stretto – come in Ligeia e Morella, nei quali è accennato e presentato come un effetto inaspettato alla fine del manoscritto – ma solo il soffermarsi sul tema della sepoltura prematura e della profanazione della tomba come ultimo limitare della follia feticistica estrema del narratore.

Guardando alla data di queste tre opere, noterai che sono tutte e tre successive o concomitanti al matrimonio – platonico, mai consumato – di Poe con sua cugina Virginia. L’ombra della perdita dell’amata, nella quale Poe rinviene il prototipo delle tre figure femminili sopraelencate, è il fulcro per muovere verso il delirio psicotico del narratore-autore: più che un vero e proprio presagio di perdita e di morte, qui sembra che Poe abbia attinto dal suo sentimento per Virginia per creare un modello narrativo e poetico particolare.

La poesia e una risposta

Nella poesia, invece, le cose cambiano. Sembra scorgersi molto meglio l’ombra della malattia e il lutto della morte per la perdita di Virginia, vero e proprio spartiacque prima di raggiungere la conclusione pacifica – seppur desolante – delle ultime righe di Annabel Lee.

Qui si apprezza l’influsso della tormentata vita di E.A.P., che invece, se prima il tema più poetico della morte di una splendida donna era ancillare alla costruzione artistica, dopo il trapasso di Virginia è il contrario: lo stile, splendido, è al servizio del ricordo della moglie defunta.

Così, secondo me, la risposta che già prima anticipavo non è univoca, ma si può scomporre di tre fasi:

  1. Berenice Ligeia e Morella, racconti nei quali prevale la licenza stilistica;

  2. Il corvo soprattutto, ed Eleonora, come presagio della morte;

  3. Annabel Lee e Ulalume come tentativo di reagire al lutto.

Finisco.

Se ne Il corvo, del quale ti ho già accennato brevemente, la conclusione a cui perviene lo stremato protagonista a seguito del messaggio dell’uccello psicopompo è di assoluto pessimismo“e la mia anima da quell’ombra che flotta sul pavimento non sarà alleviata mai più” – e reca il presentimento funesto dell’imminente morte della moglie di Poe, in Annabel Lee, che invece segue la morte di Virgina, il lutto lascia spazio alla speranza, che l’autore sembra infondersi:

[…] e né gli angeli su nel cielo alto

né i diavoli nel mare profondo

potran mai separare la mia anima dall’anima

della bella ANNABEL LEE.”

Se consideriamo che di lì a poco – si tratta di una poesia scritta e pubblicata nel 1849 – Poe sarebbe morto, e che dopo la perdita di Virginia in molti lo hanno visto ridotto in condizioni pietose per via dell’alcool e dell’oppio avvinghiato alla tomba di sua moglie, il messaggio della poesia, senza voler essere superstiziosi, sembra essere proprio un presagio della morte dell’autore di Boston.

Ulalume, scritta e pubblicata anche essa dopo la morte di Virgina, nel 1847, riprende il tema del sepolcro della fanciulla. Tema che, in questo caso, assume i contorni di un vero e proprio pellegrinaggio inconscio: in un’ambientazione sinistra e inquietante – “fosco lago di Auber”; “nebbiosa contrada del Wier di mezzo”; “padule nero” di Auber, foresta “ossessa dei vampiri di Weir”, – l’io poetico inconsciamente giunge alla tomba della bella Ulalume esattamente un anno dopo la sua sepoltura. Vorrebbe dimenticarsi del lutto ma non può.

Ti lascio con gli ultimi e suggestivi – sapendo come sono trascorsi gli ultimi anni di Poe – versi di Annabel Lee:

[…] e così, quanto è lunga la notte, mi posa

a lato la mia cara vita, la mia sposa,

nel suo sepolcro sulla riva del mare,

nella sua tomba posta a lato del mare.

Una splendida interpretazione di Annabel Lee.

Se questo articolo ti è piaciuto, non farti scrupoli a condividerlo. Ci vediamo al prossimo, sperando che possa essere un appuntamento gradito. 

Bibliografia:

  1. I racconti in prosa qui citati li puoi trovare in Tutti i racconti del mistero dell’incubo e del terrore di Edgar Allan Poe, Grandi Tascabili Economici, Newton Compton Editore, 1989.
  2. Tutte le citazioni riguardo alle poesie di Poe sono tratte da Edgar Allan Poe, Poesie, traduzione di Carla Apollonio, introduzione di Matteo Veronesi,  Barbera Editore, 2006.
  3. La filosofia della composizione, Edgar Allan Poe, a cura di Luigi Lunari, La Vita Felice, 2012.